Identità fluida. Alla scoperta dell’altro tra le due fette del Panino Italiano
Identità.
Quante volte questa parola echeggia nel nostro parlare quotidiano, nel posto di lavoro, in un’aula universitaria, tra i tavoli di un bar, nelle chiacchiere con gli amici. Spesso e, diremmo sempre più, insieme a un’altra confermata “bolla lessicale”, il cibo. Cibo e identità: connubio antico quanto attuale, eletto eternamente dalla massima del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach “Tu sei ciò che mangi”. E così che il cibo, oggi ancor di più, si fa strumento con cui costruire e affermare la nostra identità, a noi quanto più agli altri: l’identità italiana. Proprio l’Italia che più di tutti lo ha elevato a sua bandiera e baluardo nel mondo, per tanti patria del “buon cibo”, per i suoi concittadini quella della “cucina migliore del mondo”. Questo l’appellativo ormai comune ribalzare di bocca in bocca quando se ne parla. Questa quindi la concezione dell’identità culinaria italiana e, in generale, dell’identità, elogiata a gran voce: “superiore, intoccabile, esclusiva, chiusa”, immodificabile dall’alter, l’“altro”, difesa da espressioni quali “mia nonna la faceva così”, “è sempre stato così”. E se non fosse sempre stato così? Così effettivamente non lo è sempre stato. L’esperienza accademica e umana vissuta dalla sottoscritta all’università ne hanno rivelato infatti un’altra faccia, la sua essenza: l’essere “aperta e continuamente rinnovata da quel processo di incontro e scambio che il cibo quale ‘cultura che viaggia’ porta con sé”. Questo quindi l’obbiettivo di tale tesi: far memoria, luce, consapevolezza su come quel valore di accoglienza e apertura intrinseco al cibo possa vedere come sua prima testimone proprio la cucina italiana. Lo strumento? La storia. Lei spesso chiamata a giustificare la sua indiscutibile immutabilità si erge invece a paladina della giustizia, per rivelarne la sua vera identità: viva, instabile, “sempre in gioco”, un’identità fluida. Tanti gli esempi, ma ecco che tra tutti si è scelto il più esemplare, la preparazione gastronomica eletta: il nostro caro panino. Duttile nelle sue forme, ingredienti e denominazioni, esso lo è infatti sempre stato, sin dall’inizio: dal suo essere “cibo di strada”, successore del genere torta, al suo ancestrale antenato “pane e companatico”, sino a oggi, all’odierno panino gourmet et gourmand, un panino d’autore. Quel panino nato negli anni ’60, non più solo proposta nutriente, ma anche sfiziosa e divertente. Contenitore di un contenuto goloso e creativo, dagli ingredienti allora nuovi e mai visti: quelli dell’innovativa industria insieme a quelli più improbabili. Indimenticabile il famoso “panino imbottito con prosciutto di scimmia” dell’impavido e primo autore Cesare Cremonini (in realtà “semplice” prosciutto di camoscio, oggi forse più raro di quello di scimmia).
Il panino quindi “due fette aperte a tutto”, che mantiene e rafforza proprio tale valore di accoglienza quando è lui stesso a farsi rappresentante di una “gastrosfera”, cultura, identità, della nostra, italiana. Ebbene sì, parliamo proprio di lui, il soggetto indiscusso di questo magazine: il Panino Italiano. Ecco infatti che nella ricerca della sua definizione, tra le righe degli otto punti del suo manifesto, l’“altro”, il nuovo, il diverso entra quale suo cuore pulsante, essenziale per la sua nascita, rinnovamento e quindi esistenza. Necessario e irrinunciabile sin dalle sue prime espressioni, sin dalla sua codificazione attraverso i suoi più emblematici rappresentanti, gli iconici. Da Nord a Sud: il tramezzino, la michetta, il lampredotto, il “pani câ meusa”. Se infatti per l’invenzione sabauda è il toast da cui ha ereditato il suo morbido bianco pane; per la protagonista della schiscetta milanese è quello austriaco “Kaisersemmel” a cui si è ispirato; per lo street food fiorentino per eccellenza il suo pane originario tedesco, il “sèmelle”, per quello palermitano il dovere la sua stessa invenzione all’ingegnosità della comunità ebraica. L’altro, la costante quindi di tutti e quattro panini e ancor di più delle denominazioni analizzate dei panini di sei ricettari diversi, datati dagli anni ’70 a oggi. Dal “Pane e mortadella all’americana” del 1976 del leggendario ricettario di Elena Spagnol, al “Culatello, gruyère e salsa agrodolce” del 1998, al “Panino pollo brie e salsa di pomodori secchi” del 2013. In tutti, quella relazione tra nostrano e straniero, “local” e “global”, glocal. Il risultato: un’armonia culturale e sensoriale di un Panino Italiano, come esprime il punto 6 del suo manifesto, vero e proprio “interprete e ponte di culture”. Un panino che abbina il nuovo alla “straordinaria molteplicità e qualità dei prodotti italiani” di cui è ambasciatore, senza rinnegare il suo essere panino “che appartiene al mondo” e, come lui, la sua forma più sincera e autentica, appunto: l’Autentico Panino Italiano. Dei cinque analizzati aver meritato e ricevuto l’onorevole titolo nel 2021, a essere il più rappresentativo uno in particolare: il Panino Gennargentu. Il suo autore nonché ambasciatore del Panino Italiano, Giorgio Borrelli, racchiude infatti il piccolo scrigno sardo di sapori della zona del Montiferru all’interno non di un pane iconico sardo, ma bensì di una francese baguette al sesamo.
Questo quindi il Panino Italiano: ospitale, aperto all’ “altro”, riconoscente la preziosità e necessità della sua presenza, legato reciprocamente e indissolubilmente con lui, in un modo sempre nuovo, diverso.
E questa quindi anche la cucina italiana, la nazione Italia, l’identità italiana nella riscoperta della sua origine, essenza sulla quale questa tesi ha voluto fa riflettere: fluida, fondata su quel valore che avevo reso grande la nostra antenata civiltà romana, l’humanitas. Lei, in poche parole, la capacità di vedere l’altro e di trovare in lui noi stessi.
Diremmo qui: mangiare la nostra cucina italiana e trovare nei suoi piatti e ingredienti, lui, lo straniero, che forse tanto più non lo è.