La Storia dei Panini
Alla ricerca delle origini del "piccolo pane ripieno"
Il panino, termine recepito dai dizionari ottocenteschi nel significato di “piccolo pane ripieno”, ha una storia connotata da consumi socialmente differenziati ed è rappresentativo di una società stratificata. Essa si apparenta a quella del pane, alimento di classe per eccellenza, e delle conserve e dei cibi che gli conferiscono una grande varietà di sapori, anch’essi di costo, pregio, disponibilità scalari. A partire dagli anni ’70 si osserva una inversione di tendenza e, con l’abbandono di distinzioni gerarchiche e di pregiudizi sociali, si asssiste ad un nuovo corso in cui il panino assorbe via via tutti i valori del sistema alimentare e ne rappresenta un elemento base, sempre meno dipendente da fasce orarie, ritmi nutritivi, rituali di consumo.
Nella borghesia ricca, e nella convivialità nobiliare, nel XIX secolo, il panino era presente in quanto importato dall’Inghilterra e dalla Francia, come sandwich, tartina, canapé ; figurava principalmente nei buffets e nel rito del tè, ed era contrassegnato da un condimento ricco e di pregio, con una sola o due fettine di pane piccolo, soffice e dolce. Aveva una sua aura fanciullesca, signorile e golosa : il panino – aristocratico, dolce, soffice, profumato – era ben noto ai lettori di fiabe e di Pinocchio : “la Fata aveva fatto preparare dugento tazze di caffé e latte e quattrocento panini imburrati di dentro e di fuori”. Nel menu classico, in Toscana, il pane oltre essere servito individualmente (e si spezzava con le mani) figurava nei “principi” o crostini di pame con tartufi, beccaccia, baccalà (Artusi, La scienza in cucina, 1891), in altre regioni era presente nell’antiipasto freddo o “hors d’oeuvre”, con burro e acciughe, gamberetti, caviale.
Il taglio del pane ha sempre avuto un ruolo connotativo della classe e della funzione. Con o senza crosta era popolare o borghese ; tagliato verticalmente (pane a cassetta) era signorile, orizzontalmente, soprattutto nel formati comuni, popolare. La croce o lo stemma a coronamento della pagnottella non veniva incisa, favorendo la sezione orizzontale. Il panino dolce tondo, al latte, come quello popolare, la michetta, tagliati orizzontalmente permettevano di ricongiungere le due parti ricostituendo la forma e nascondendo il companatico. A questo proposito vanno anche ricordati i pani conditi (olio, olive, noci ecc.).
Nella forma di filoncino o pagnottella divisi orizzontalmente, c’era la farcia, per esempio una bella fetta di roast-beef, che lo caratterizzava, destinandolo al viaggio e al picnic, e ne connotava l’alta classe sociale. Il companatico è stato l’indicatore del ceto di chi mangiava il panino, e, per restare nell’ambito dei valori alimentari quali carne e pesce, si andava dalle carni cotte o le conserve pregiate (caviale salmone), alle conserve borghesi (prosciutto), a quelle comuni (salame, aringhe) a quelle popolari (resti di salumeria, salacche). Obiettivo di chi, negli anni trenta, vuole rendere italiano il sandwich, sarà di cambiargli nome e di adeguare il companatico. Si assiste così ad una italianizzazione del termine inglese, operata da Marinetti (nella Cucina futurista del 1932 propone di sostituire a “sandwich” “traidue”) e da Gabriele D’Annunzio che avrebbe coniato il “tramezzino”. Che cosa vi si unisce ? Si escludono i prodotti stranieri (salmone, caviale, pâté) e si suggeriscono quelli italiani (prosciutto crudo). Ma la circolazione di modelli nazionali-internazionali non s’inceppa, anzi alcune forme e strutture eleganti e complesse datano di questi anni e il sandwich club è registrato con ricetta da Ada Boni nel Talismano della felicità del 1931. Il campo dei sandwich, tartine e canapés, evolve poco nel secondo dopoguerrra, e lo ritroviamo ancora presente oggi nelle versioni sbrigative di pane a cassetta, maionese industriale, salmone affumicato che invecchiano nelle vetrine di alcuni bar.